È solo la fine del mondo
Questo era uno spazio libero. Ora è occupato da un indolente che voleva fare lo scrittore. A seguire: un appunto, un consiglio, un saluto.

Un appunto
In tempi così complicati bisognerebbe scrivere di cose grandi. Ma io non ci riesco, non ne sono capace, più mi guardo attorno e più mi confondo, cerco di capire e nel farlo studio, riordino, incasello, ma le notizie sono troppe e troppo confuse e m’incasino. Quel che un giorno do per certo, il giorno dopo viene smentito, quel che un giorno imparo, il giorno dopo lo dimentico, sommerso da altre notifiche, email, messaggi, storie Instagram, video TikTok. A volte spengo tutto, cancello ogni social dalla schermata home del cellulare, mi riprometto di entrarci da computer per una mezz’ora soltanto, la sera, dopo cena ma molte ore prima di andare a dormire che dicono disturbi il sonno e già qui si dorme pochissimo e malissimo, e vado all’edicola del paese, quella sotto i portici dove una volta compravo le figurine, a prendere tutti i quotidiani possibili. M’informo su carta, come mia nonna. Come lei ascolto il tg a pranzo e cena. Poi nella mezz’ora social che mi ero ripromesso vedo il mondo andare a fuoco, penso di essermi perso tutto e subito riscarico tutte le applicazioni possibili sul cellulare, passo la notte a scrollare gli aggiornamenti live sui conflitti in corso, a leggere e rileggere il numero dei morti, a pregare un Dio qualsiasi che smettano subito perché ho paura. Scrivo ad amici, conoscenti, alle zie mistiche che mi leggono le carte, alla ricerca di una voce calma che mi accompagni al mattino. Loro, come sempre, mi pensano pazzo, mi ridono dietro, mi consolano. Mi dicono di prendere tutto il mio tormento e farne ciò che mi riesce meglio (sottintendendo: l’unica cosa che ti riesce): scrivici su. Ma io delle cose grandi non riesco a scrivere. Sono solo capace a inseguire le lucciole nei prati.
Per scrivere del mondo devi usare parole attente. Devi possedere uno sguardo limpido, capace di illuminare ciò che è adombrato, di sciogliere e riordinare, capace di muovere le domande giuste. E io sono disordinato, interessato agli incagli del quotidiano dove si annidano ragni e insetti, bravo soltanto a far le domande sbagliate al momento sbagliato. Quindi lascio perdere, continuo a giocare a nascondino nei boschi, guardando da lontano questo mondo che non capisco, lasciando che le sue guerre e i suoi disastri mi levino il sonno la notte.
Sono troppo pavido e volubile per prendere una posizione decisa, precisa, sul male. Non ho la tempra del rivoluzionario. Il fisico e i nervi che servono a cambiare il mondo. Ma prego ogni notte perché ne nascano a milioni e miliardi, di ragazze e ragazzi capaci di fare del mondo cosa bella. Passo le notti a pregare per le nostre cose grandi e le mie cose piccole, sciocchezze che a dirle ad alta voce mi vergogno un po’ e penso che hanno ragione gli amici a darmi del frivolo, dello sciocco, a dirmi: chiudi gli occhi e cerca di dormire che domattina già non ci pensi più. E infatti io, la mattina, quando mi sveglio tardissimo dopo essermi addormentato alle prime luci dell’alba, penso sempre a due cose soltanto: se mi è rimasto del caffè e con quale dei mille ragazzi con cui mi sto sentendo avrei voluto trascorrere la notte.
Poi mi lavo, mi vesto, mentre bevo il primo caffè del giorno, inizio a imparanoiarmi e non ne esco più.
Mamma, che è sempre stata la più brava a ridimensionare le mie psicosi, da ventisette anni a questa parte, ogni volta che il cervello mi s’introttola, mi dice sempre la stessa cosa: “Andiamo a raccogliere dei fiori”.
L’altra sera, era il 23 di giugno, la notte di San Giovanni, notte di magie. Ero preoccupatissimo perché l’Iran aveva bombardato il Qatar, gli spazi aerei sopra il medio oriente stavano chiudendo l’uno dopo l’altro e la mia migliore amica, l’amore mio più grande, il mio tutto, stava negli Emirati Arabi Uniti.
Va detto che abita lì da anni, perché un giorno come un altro, all’improvviso e senza dire niente a nessuno ha lasciato l’Italia in cerca di fortuna, lavoro, tranquillità, perché a stare troppo fermi in un posto si marcisce, perché non ce la faceva più. Insomma. Vive lì da tempo, ha un buon lavoro, un fidanzato, amici, casa e tutto quel che serve a star bene. Sono io che qui, senza di lei, non sto bene. E glielo ricordo ogni volta che posso, quindi ogni giorno, a ogni ora del giorno, per più volte all’ora.
(Non preoccupatevi che sul grado di tossicità del nostro rapporto già ci stanno lavorando psicologici e psichiatri, preti e scienziati).
Lei mi rincuora: “Tranquillo che torno”, “Tanto torno”, “Torno presto”, “Prima o poi torno”. Io la riprendo: “Sono tre anni che me lo dici”.
L’altra sera, poco prima di cena, mi ha mandato uno screenshot con l’avviso della chiusura dello spazio aereo sopra gli Emirati Arabi Uniti e altri stati mediorientali. Poi mi ha scritto: è finita, perché ha la mia stessa vena melò. Con la calma che mi contraddistingue le ho subito risposto: appena riaprono prendi il primo volo per l’Italia. Lei mi ha scritto: vediamo. Io in modalità zen: ma cosa vuoi vedere? IL PRIMO VOLO. Non mi ha più risposto. Allora ho pensato: è finita.
Ho controllato online le ultime notizie, seguendo l’aggiornamento live che offriva una testata. Mamma mi ha chiamato per dirmi che era pronta cena. Ho raggiunto la mia famiglia in cucina. Mentre gli altri mangiavano, continuavo a scrollare il cellulare in cerca di aggiornamenti. Mia sorella mi ha visto preoccupato, mi ha chiesto: “Che cos’hai?” e allora son sbottato. Ho urlato, pianto, bestemmiato. Quando mi sono ritrovato senza più fiato, mia sorella mi ha allungato un pezzo di scottex per soffiarmi il naso, papà ha stretto le spalle e continuato a mangiare e mamma mi ha detto: “Vieni con me a raccogliere i fiori, dopo dobbiamo preparare l’acqua di San Giovanni”.
Elicrisio, petali di rosa gialla, petali di rosa rossa, camomilla, salvia, mandarino, incenso, geranio, timo e menta, lasciati riposare all’aperto in acqua di fonte, perché prendano la rugiada notturna.
Ho raccolto i fiori e le piante, li ho posti in una ciotola di vetro riempita con acqua, li ho esposti al chiaro di luna e non ho mai smesso un attimo di pregare affinché i cieli sopra al mondo si aprissero. Ho pregato per tutti, perché sono uno stronzo egoista ma fino a un certo punto, e ho pregato per me, perché la mia migliore amica, il mio amore più grande, il mio tutto, riuscisse a tornare in Italia, perché sono uno stronzo egoista dopotutto. Poi ho fatto una foto all’acqua di San Giovanni e gliel’ho inviata a lei che stava dall’altra parte del cielo e del mare, le ho scritto: l’ho fatta per te. Mi ha risposto: è bellissima.
Quando ho scoperto che gli spazi aerei sopra al Medio Oriente stavano riaprendo ho pensato al miracolo. Le ho subito scritto: parti. E lei: vediamo.
Mi sono arrabbiato tantissimo, ho pensato che nemmeno la guerra, nemmeno un miracolo, l’avrebbero smossa mai, mi sono girato e rigirato nel letto senza mai trovare sonno, poi ho messo su una serie tv spagnola scritta malissimo ma piena di boni e mi sono addormentato.
Il mattino dopo mi sono svegliato con in testa soltanto il rugbista stupendo protagonista della serie che avevo intravisto. Mi sono alzato, mi sono lavato la faccia e i denti per poi accorgermi, seduto sul cesso, di aver finito il caffè.
E senza caffè poi non riesco a pensare alla fine del mondo.
Un consiglio
Un po’ è colpa mia che come tutti, ma forse un po’ di più, ho visto in The last of us quel che vide il contadino delle Cotswold nella rotazione continua dopo tempi di maggese. Il domani. Per ciò che diceva e per come lo diceva. Perché Pedro Pascal è Pedro Pascal e perché sono stato un bambino timido cresciuto in provincia, cioè un nerd.
Ho poi scoperto, come tutti, ma forse un po’ di più, di non sapere niente.
L’ho scoperto guardando un film piccolo e grandissimo (lode a chi è capace di tenere insieme il mondo e l’insignificante), si chiama 28 giorni dopo, è del 2002, l’ha diretto Danny Boyle (quello di Trainspotting, di The Beach, di The Milionarie) ed è stato scritto da Alex Garland (quello di Civil War, Ex Machina, AnnihilationI). Il protagonista è Cillian Murphy (prima di Peaky Blinders, prima di Oppenheimer). Ma ora basta con le parentesi, procedo nel dirvi quel che la storia racconta, e cioè: un’epidemia di rabbia dilaga nel Regno Unito, chi viene colpito dal virus si trasforma in uno zombie assassino. 28 giorni dopo l’inizio della fine, Cillian Murphy, che nel film si chiama Jim, si risveglia dal coma in cui si trovava a seguito di un incidente. Attorno a lui non c’è nessuno, l’ospedale è abbandonato, la città pare deserta. Mentre cerca di capire cos’è successo viene attaccato da alcuni infetti. Riesce a cavarsela grazie all’aiuto di altri sopravvissuti con cui si metterà in viaggio alla ricerca di un posto sicuro.
Un horror a basso costo, girato tutto in digitale, che quasi sembra un progetto amatoriale di giovanissimi appassionati del genere. Un film libero, che racconta prima di tutti e meglio di chiunque altro cosa sarebbe poi stato di noi e del mondo.
La paura del contagio, la rabbia cieca e irrazionale nei confronti dell’altro, amico o nemico che sia, e ancora un virus maledetto che dall’animale passa all’uomo, l’inasprirsi di un conflitto che si fa guerra, la Brexit, la stolta convinzione che soltanto l’arginare, e quindi l’escludere, il dividere, l’allontanare, possa proteggere. La speranza, forse vana, di un mondo nuovo.
Insomma, Pedro levate, che tutto è già stato scritto.
Nel 2007 è uscito 28 settimane dopo, un sequel che non è bello ma nemmeno bruttissimo. Forse dimenticabile ma comunque più riuscito di molti horror da piattaforma degli ultimi anni.
E ora, in sala, 28 anni dopo. Girato di nuovo da Boyle, scritto ancora da Garland. È di certo un horror, ma soprattutto, e ancor più di prima, è una storia sul mondo che ci aspetta, un racconto familiare (un’ultima parentesi perché qualche nome va ricordato: il padre, Aaron Taylor-Johnson, la madre, Jodie Comer) e il ritratto piccolo, quasi insignificante di un ragazzo tra tanti che racconta di tutti (il figlio, Alfie Williams). Ancor più di prima, è il manifesto di un mondo spaccato dove per grazia resiste il mistico, il magico, il santo. Ma bisogna aver buon fiato, qualche freccia da scoccare al momento più giusto e molto coraggio per mettersi in cammino e ritrovare la speranza. È una fiaba di resistenza che si muove tra la selva oscura e un’isola che non c’è, ma anche un manuale di educazione siberiana impregnato di sangue, violenza, morte. Ancor più di prima, è una favola nera che non si accontenta di spingersi verso la fine ma cerca, nella fine, un inizio nuovo.
Dirà a un certo punto un medico forse pazzo al giovane protagonista: è vero, moriremo tutti. Ricordatelo. Ma ricordati anche, prima, e soprattutto, e proprio perché un giorno arriverà la fine: tu ricordati di amare.
Memento mori. Memento amoris.
Un consiglio ancora, ma solo per questa volta
Perché quando si parla di fine del mondo, di virus matti che sterminano quasi tutti i viventi indistintamente, di mondi diversi, forse migliori, non posso non citare due delle opere che più amo. Dirò soltanto i titoli e nulla di più. Perché è giusto così.
La prima è un film del 2006, l’ha girato Alfonso Cuarón, si chiama Children of men.
La seconda è un libro (ma anche una serie) di Emily St. John Mandel, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo. Si chiama Station Eleven.
Un saluto
Ecco, insomma è tutto. Al resto poi ci pensiamo.
Se vuoi tornare, t’aspetto qui, faccio spazio.
Niccc